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Radici

03/03/2014

Sull’Unità di oggi Silvio Pons traccia un quadro allarmante della situazione in Ucraina, in cui vede il rischio di un “conflitto difficile da contenere e imprevedibile nei suoi esiti”. Intervistato dal Corriere della sera, Charles Kupchan sostiene che non si tratta di una nuova Guerra fredda, ma che potremmo arrivarci e che questo dunque è il momento della solidarietà transatlantica. Sia Pons che Kupchan vedono tuttavia in Putin non il trionfatore, ma lo sconfitto di questa crisi (o di questa prima parte della crisi): l’aggressione sarebbe la reazione rabbiosa al fallimento della sua strategia. Fallimento tanto più clamoroso perché Putin aveva assai più carte da giocare dell’Occidente, in una partita condotta sul terreno dell’egemonia o del soft power che dir si voglia.

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A proposito di soft power, proprio Kupchan è un antico sostenitore della necessità che gli Stati Uniti guidino il processo di transizione dal mondo unipolare uscito dalla Guerra fredda verso un sistema che sarà inevitabilmente policentrico, più caotico e molto più difficilmente controllabile. Nel suo ultimo libro, intitolato per l’appunto “Nessuno controlla il mondo”, scrive che “le democrazie atlantiche potrebbero non essere più il centro di gravità del pianeta, ma sono comunque in condizione di incidere in modo considerevole sulla costruzione di un ordine post-occidentale”. Per farlo, però, dovranno “adottare principi e strategie che consentano di creare un più largo consenso tra l’Occidente e il resto del mondo”.

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In un lungo excursus dedicato alla crisi della democrazia nel mondo (in un saggio che rappresenta una notevolissima “summa ideologica” di questi tempi), così l’Economist riassume la storia recente della Russia post-sovietica: “After the fall of the Berlin Wall in 1989 the democritisation of the old Soviet Union seemed inevitable. In the 1990s Russia took a few drunken steps in that direction under Boris Yeltsin. But at the end of 1999 he resigned and handed power to Vladimir Putin…”. Segue elenco di tutte le malefatte di Putin. Ma prima di discutere di questo, comunque la si pensi in merito, occorrerebbe domandarsi se l’antefatto possa essere riassunto in questi termini, e proprio dall’Economist. Se cioè le élite economiche e intellettuali dell’Occidente possano continuare a offrire una versione tanto edulcorata della vicenda, e più in generale dei “ruggenti anni novanta”. Così non solo si racconta una storia insensata e incomprensibile, ma si finisce per fare – paradossalmente – un enorme favore proprio a Putin e a tutti i Putin del mondo non-occidentale, confermando nei loro sostenitori la convinzione che l’alternativa, per loro e per il loro paese, sia comunque peggiore.

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A ulteriore conferma del fatto che le radici sono importanti, “La grande bellezza” ha vinto l’Oscar.

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