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Più severi e più buoni

31/03/2010

Il centrosinistra ha vinto in sette regioni e perso in sei. In Piemonte, ha perso per diecimila voti. Alla lotteria dei rigori, si direbbe nel calcio. Ma si sa che alle elezioni, proprio come nel calcio, non esistono mezze vittorie: perdere dieci a zero o perdere ai rigori non cambia l’esito della partita. Nel calcio, in compenso, cambiano almeno le analisi del dopo-partita. In politica, dipende. Certo è che il Pd non veniva da una lunga serie di successi, e che fino a tre mesi fa qualunque dirigente avrebbe messo la firma sul 7-6. Ma buona parte dell’elettorato, probabilmente, no. E forse questo è oggi il problema principale.
Può darsi che il Pd sia rimasto vittima della sua stessa propaganda. Ma forse, soprattutto, della propaganda di quel vasto arcipelago di giornali, giornalisti, politici e cabarettisti che da anni contribuiscono non poco alle sue difficoltà: prima dipingendo l’Italia come un paese oppresso da una forma di dispotismo orientale, e poi, per spiegare il consenso che il tiranno continua raccogliere tra gli oppressi, ricorrendo alla più elementare delle giustificazioni: se Silvio Berlusconi prende nonostante tutto tanti voti, vuol dire che gli altri sono peggiori, o venduti, o comunque in combutta con lui.
Il problema di Pier Luigi Bersani non sono i risultati delle regionali. Tutti conoscono la situazione che ha ereditato da due anni di vocazione maggioritaria e nessuno può in buona fede fargli una colpa dello stato in cui versano ora il partito e la coalizione che faticosamente sta cercando di rimettere in piedi. In questi primi cinque mesi alla guida del Pd, se non altro, Bersani è rimasto fedele al suo personaggio, che è poi l’incarnazione stessa del modello emiliano: serio, pragmatico e responsabile. Un politico con i piedi per terra, razionale, misurato, solido come il partito che intende ricostruire. Uno che sa di cosa parla e parla di quello che sa. Ma anche uno che parla molto poco. Tanto che qualcuno, considerati i suoi lunghi silenzi, ben presto ha cominciato a domandarsi se sapesse fare il segretario.
In questa prima fase, per cominciare, Bersani ha deciso di uscire dal loft del Grande Fratello in cui si erano volontariamente reclusi i suoi predecessori, con meno benevoli conduttori al posto di Alessia Marcuzzi, illustri retroscenisti al posto del confessionale e con gli pseudo-sondaggi on-line dei grandi giornali al posto del televoto da casa. Lo ha fatto un po’ per scelta politica, probabilmente, e un po’ per irriducibile incompatibilità caratteriale a una condizione claustrofobica e umiliante, tra le continue e sempre più ridicole prove da superare, tra sempre nuovi referendum, appelli e manifestazioni cui aderire, cappello in mano e calzini turchesi ai piedi.
Gli errori imputati al segretario sono noti. Bersani presta il fianco a chi gli attribuisce una concezione anacronistica del partito e della politica, si espone all’accusa di cedimento sulla giustizia, ma non ne approfitta nemmeno per fare chiarezza e tracciare una linea netta. Errori che potrebbero costare cari. Ma commessi per sottovalutazione, non per impulsività. Dettati forse dall’idea che la situazione non sia poi così grave, mai dall’ansia. E in questo c’è comunque qualcosa di buono.
Naturalmente, può darsi che Bersani si sbagli, che siamo davvero alle soglie di un nuovo terremoto come quello di Tangentopoli e che il Pd, con le sue esitazioni e le sue ambiguità, finisca ancora una volta nell’angolo. E magari tra altri quindici anni, quando a Berlusconi sarà succeduto un altro Berlusconi forse solo un po’ più garbato nei modi, i leader del centrosinistra di questa stagione si ritroveranno tutti, come le star, a bere chinotto al Dopofestival di Sanremo.
Bersani però non sembra preoccuparsene. Almeno finora, è rimasto fedele non solo al suo personaggio e al suo carattere, ma soprattutto al mandato che ha ricevuto dagli iscritti e dagli elettori del suo partito. C’è da augurarsi che gli reggano i nervi, nei prossimi tre giorni, perché nei prossimi tre anni l’intero centrosinistra avrà molto bisogno di dirigenti capaci di star fermi sulle proprie gambe, e per questo capaci anche di confrontarsi con il proprio mondo, con i propri sostenitori e con i propri critici, senza disprezzarli né vezzeggiarli (che è poi la peggiore forma di disprezzo). Capaci insomma di mostrarsi, al tempo stesso, più severi e più buoni. E cioè l’esatto contrario di quello che si è visto sin qui, nel corso di una lunga, troppo lunga stagione costellata di dirigenti che tante volte al proprio popolo sono apparsi insieme deboli e prepotenti, remissivi e vendicativi, indulgenti e incattiviti. (il Foglio, 31 marzo 2010)

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  1. Andrea Capocci permalink
    31/03/2010 13:36

    Così tanto stalinismo in un solo articolo fa quasi tenerezza.

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