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Per carità, non chiamiamo le cose con il loro nome (che non ce l’hanno)

12/02/2009

Nel dibattito di questi giorni attorno al caso Englaro si è sentito spesso un ragionamento che suona così: si può discutere di tutto, concedere tutto, purché “si chiamino le cose con il loro nome”. Per il cardinal Ruini come per Gaetano Quagliariello, passando per buona parte di questo giornale, l’ultima trincea di una discussione sincera, onesta e razionale sembra dunque essere questa: che almeno si chiamino le cose con il loro nome. Altrimenti, va da sé, si cade nell’ipocrisia, peccato capitale che tutti i pensatori antidemocratici di ogni ascendenza – non a caso – hanno sempre imputato alla borghesia e alla sua corrotta epoca.
Stupisce quindi che oggi, mentre si canta il definitivo trionfo della democrazia celebrandone il valore universale, non si sia ancora con pari forza affermata la rivalutazione di quell’antico vizio, l’ipocrisia, che della “democrazia borghese” costituisce in verità la virtù cardinale, la sua stessa condizione di possibilità.
Pretendere che si chiamino le cose con il loro nome, infatti, non è solo un gioco delle tre carte in cui si fa passare per necessaria premessa quella che è in realtà, semmai, la conclusione del dibattito: se per discutere del caso Englaro devo prima concedere che lo si chiami “omicidio” (o al contrario “interruzione dell’accanimento terapeutico”), che resta mai da discutere? Ma quella pretesa, con il suo netto rifiuto di ogni ipocrisia, prima di tutto è incompatibile con la democrazia, o più semplicemente con la convivenza civile. Se chiamiamo quello di Eluana Englaro un omicidio, se stabiliamo a priori che questo è il suo proprio nome e non vogliamo davvero essere ipocriti, dovremmo riconoscere che allora, pur di evitare un omicidio, tutto è lecito. Moralmente e non solo. Se un uomo punta la pistola contro di me o contro chiunque mi stia accanto, deciso a sparare, qualunque cosa io faccia per impedirglielo è buona e giusta. Ma lo stesso discorso vale per chi di fronte all’iniziativa del governo ha parlato di “colpo di stato”, sempre se vogliamo chiamare le cose con il loro nome e non essere ipocriti. Da che mondo è mondo, infatti, ai colpi di stato non si risponde con pacate manifestazioni di dissenso.
Considerato dunque che da entrambe le parti, in nome del rifiuto di ogni ipocrisia, si è deciso di chiamare le cose con il loro nome, c’è da rallegrarsi della provvidenziale ipocrisia che ha portato ciascuno, nonostante tutto, a evitare la guerra civile. Naturalmente si può anche sostenere – molti autorevoli pensatori lo hanno fatto in passato – che la guerra civile sarebbe stata l’unica soluzione chiara, onesta e capace di rigenerare il paese, ripulendolo dalle incrostazioni dell’ipocrisia borghese che ne avrebbero offuscato il sentimento morale, i valori, eccetera. Ma la verità è che le cose non ce l’hanno affatto, un loro nome, come fosse un cartellino che si portino appresso. Ogni cosa, in sé e per sé, non ha alcun nome né alcun valore: siamo noi che glieli diamo. Non è “l’omicidio” di Eluana Englaro che ha costretto chi la pensava così a battersi per impedirlo. E’ il fatto che la pensasse così che lo ha spinto a chiamarlo “omicidio”. Felice ipocrisia, dunque, quella che lo ha fermato dal trarre le conseguenze ultime delle sue parole e invocare il carcere per i responsabili diretti e indiretti, se non peggio. Ma da chi ha una responsabilità pubblica, perché scrive sui giornali o perché riveste un ruolo politico, sarebbe lecito attendersi maggiore attenzione nel pesare le parole e nel valutarne le conseguenze (morali e politiche). E dunque, in definitiva, anche un po’ meno ipocrisia. (il Foglio, 12 febbraio 2009)

4 commenti leave one →
  1. gigi permalink
    13/02/2009 02:26

    La più grande ipocrisia in tutta questa vicenda,resa volutamente pubblica da uno dei protagonisti, è stata la richiesta di silenzio.Chi pensava fosse un omicidio non poteva tacere;chi pensava fosse accanimento terapeutico non poteva tacere.Gli eccessi dell’una e dell’altra parte sono solo effetti collaterali di una democrazia.

  2. Stefano Zanoli permalink
    13/02/2009 14:03

    caro Cundari, interessante la questione del nome delle cose… col nome credo si carichi più o meno il fenomeno, il fatto, di un significato che si spinge sul terreno dei giudizi morali, e dunque nelle scelte di chiamare le cose, iperboliche o meno, si gioca questo.. io ho sempre pensato che dire, del caso di Eluana, omicidio, sia un’aberrazione, così come, il buon senso me lo dice, lo è del chiamare l’aborto ugualmente, omicidio (e anche chiamare “bambino” il feto o addirittura l’embrione), così come è aberrante, in senso ottico, deformante cioè, chiamare suicidio la richiesta disperata di un uomo che soffre orribilmente e che non si può muovere ma è perfettamente cosciente (es. Welby) di porre fine alla sua vita (lo sento dire sempre dal sottosegretario Roccella… suicidio assistito…)… così come

  3. 13/02/2009 17:09

    Sono daccordo, atro che nomi come conseguenza delle cose, i nomi sono spesso conseguenza delle ideologie.
    Il terrorista che chiama se stesso comattente della fede, il semplice sostenitore della democrazia chiamato controrivoluzionario, o terrorista dal tribunale che pretende la sua legittimita’ da una rivoluzione chiamano le cose col nome che hanno scelto sulla dase del loro pensiero.

  4. 13/02/2009 19:35

    E sì, è un po’ come “la storia la scrivono i vincitori”, che è vero, solo che quella la puoi discutere, criticare gli autori, i libri. Non puoi discutere con chi parla una lingua diversa, almeno sul linguaggio (per riuscire a scontrarsi sui concetti) si deve essere d’accordo.

    Dopo aver riletto l’articolo per 2 o 3 volte, per dannato vizio di cercare la polemica, in questo mi devo dichiarare sconfitto.
    Cundari ha scritto un bell’articolo, parlando pesantemente di cose leggere, leggere come le parole. Non è consueto riuscirci, e a dire il vero non lo è neanche provarci.
    Complimenti sinceri.

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