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Cosa manca al Pd

07/12/2010
Un processo di unificazione lento e complicatissimo, un’idea di sé incerta e sempre in discussione, una crisi che sembra senza uscita e di cui approfittano speculatori di ogni genere: in questi giorni è difficile distinguere i commenti alla crisi dell’euro dalle cronache che si occupano del Partito democratico. L’unica analogia che non è dato cogliere, in questo inquietante parallelo, è quale sia la Germania del Pd. In altre parole, che cos’è che regge, che ancora e nonostante tutto tiene insieme il partito che doveva cambiare l’intero sistema politico italiano?
Anche per il Pd, come per l’euro, non si è certo risparmiata l’enfasi retorica, a suo tempo, sulla più grande novità politica del millennio, lo storico risultato dell’unificazione, il superamento di secolari divisioni e la cancellazione di confini insanguinati tra partiti che per cinquant’anni si sono tanto duramente combattuti (e però, sotto sotto, si volevano un gran bene). E anche questo, oggi, è un problema. Perché tra giornalisti, osservatori e commentatori, tra chi una cosa la dice per gioco, chi la dice per professione e chi persino per passione, il fatto è che molti ci avevano scommesso sopra, e l’idea di pagare il conto non piace a nessuno. A nessuno piace ammettere di essersi sbagliato. E Pier Luigi Bersani è un capro espiatorio perfetto.
Di sicuro, alla nascita del Pd, non sono mancati il sentimentalismo, le immagini liriche, i grandi messaggi di speranza e di pace. E’ mancato, forse, il sentimento. Ma soprattutto è mancato un reale interesse comune, tra i diversi contraenti. Nessuno è mai davvero entrato in casa. Sono rimasti tutti fermi all’ingresso, l’impermeabile indosso e la valigia al piede, sempre sul punto di andarsene. E ormai, alla notizia dell’ennesimo fuoruscito, a qualcuno scappa persino un po’ da ridere (“E’ stato per tutti noi un duro colpo scoprire che fosse ancora nel Pd”, dice qualcuno, parafrasando Flaiano).
Ma lo sanno tutti, in realtà, che c’è poco da ridere. E’ vero, come dicono a Sant’Andrea delle Fratte, che non sono i “cattolici” a lasciare il Pd, ma semplicemente i rutelliani, comprensibilmente in ansia dopo l’uscita di Francesco Rutelli (che da parte sua è uscito quando Bersani era appena arrivato, e almeno di questo è difficile fare una colpa al segretario). E’ vero, ma non è una gran consolazione. Del resto, è vero pure che proprio Bersani era stato il primo a mettere in discussione la sostenibilità di un partito leggero, fondato sulle primarie, secondo il modello americano. E adesso proprio lui, pur segretario da appena un anno, paga il conto anche di questo, dopo le primarie pugliesi e quelle milanesi, e in attesa del risultato ancor più preoccupante di Bologna. Proprio lui, che per primo aveva parlato del rischio di un “partito liquido”, mentre i veltroniani già cominciano a dire che forse anche queste primarie, in fondo in fondo, mica ce le ha ordinate il medico. Proprio lui che per primo le aveva messe in discussione, sia pure tra molti distinguo, rischia ora di rimanerci impiccato. D’altra parte, non sarebbe una novità. E’ un’antica legge della sinistra italiana: disgraziati i primi, perché saranno gli ultimi.
E così, a leggere le analisi di osservatori e dirigenti, riesce sempre più difficile distinguere le colpe di Bersani dalle colpe del Pd. Quelli che al Pd sono sempre stati contrari, infatti, sottolineano le difficoltà di Bersani per dimostrare che avevano ragione loro, e cioè che il problema è il Pd. Quelli che il Pd lo hanno costruito o sostenuto sin dall’inizio, invece, sottolineano i suoi errori per dimostrare che non è colpa loro, perché il problema è Bersani. E poi, come sempre, ci sono quelli che stanno nel mezzo, che difendono partito e segretario, ma cominciano a domandarsi, proprio come per l’euro, chi sarà il primo a saltare: la componente ex-democristiana, risucchiata dall’Udc? L’ala veltroniana, arruolata da Luca di Montezemolo? L’area demo-tecnocratica di Enrico Letta, attratta da entrambi? Oppure cederà prima il fianco sinistro, magari al termine di rischiosissime primarie per la leadership della coalizione tra Pier Luigi Bersani e Nichi Vendola?
Quando era ancora in predicato di succedere a Walter Veltroni alla guida del partito – non del Pd, però: dei Ds, dieci anni fa esatti – giusto un attimo prima che Bersani decidesse di cedere il passo a Piero Fassino, tra i dirigenti circolava una battuta: “Sai chi è il nemico di Bersani?”. “No”. “Appunto”. Sembrava, allora, la descrizione di un leader abile, insinuante e spietato, capace di fare il deserto dove passava e di chiamarlo pace. Ora, invece, viene il sospetto che sia soprattutto un uomo pacifico, uno che semplicemente non ha voglia di litigare con nessuno. Un gran pregio, senza dubbio, per una persona. Ma anche un limite non da poco, per un segretario di partito. Il problema della lotta politica è infatti innanzi tutto questo: che è una lotta. Se tu stai fermo, non è che per questo gli altri smettono di menare. E se la politica non è solo comunicazione e belle parole, ma innanzi tutto rappresentanza, c’è pure il caso che quelli che rappresenti, a forza di prenderle senza nemmeno reagire, comincino a cercarsi un altro rappresentante.
Naturalmente è possibile anche una lettura diametralmente opposta delle mosse di Bersani, come quella che ne ha dato sul Sole 24 Ore Miguel Gotor. Bersani sarebbe un “lottatore di sumo”, fermo al centro del quadrato, capace di sfruttare a proprio vantaggio la forza degli avversari. In pratica, il relativo ridimensionamento del Pd sarebbe un prezzo pagato consapevolmente alla necessità di ricostruire una coalizione di centrosinistra, condizione indispensabile per vincere. E anche rispetto all’attuale crisi di governo, tutte le critiche mosse all’inerzia, alle incertezze e alle ambiguità del Pd bersaniano non coglierebbero il punto, e cioè che in questo modo Bersani ha offerto una sponda a Gianfranco Fini (che altrimenti mai avrebbe avuto la forza di sfidare Silvio Berlusconi), dunque a logorare il premier “per interposta persona”, ma senza rompere né con Vendola né con l’Italia dei Valori. E così Bersani avrebbe piazzato il Pd saldamente “al centro di tutte le opposizioni a Berlusconi” (centriste, riformiste e radicali).
E’ una lettura che ha se non altro il pregio dell’anticonformismo, ma si presta a un’obiezione, perché ciascuna delle acute giustificazioni strategiche delle scelte di Bersani portate a esempio – non avere allontanato Fini, non avere rotto con Idv e Vendola, non essersi rinchiusi in una posizione di testimonianza, e insomma non essersi pregiudicati alcuna strada, né verso il centro né verso sinistra – sono, come si vede, tutte cose “non fatte”. Per assurdo, se ne potrebbe concludere che il miglior leader politico è quello che non fa assolutamente nulla, permettendo così ogni volta ai suoi sostenitori di elencare tutti i possibili errori che non avrà compiuto. Quello che Gotor manca di dimostrare è che nella situazione attuale il tempo lavori per il Pd, o almeno per Bersani. E che in una situazione simile, in buona sostanza, anche lo stare fermi, sia pure al centro del quadrato, non sia un errore. E forse l’errore più rischioso di tutti.
E’ anche una questione di metodo, oltre che di merito. Sulle vicende di Pomigliano e ora di Mirafiori, per esempio, non è uno scandalo che nel Pd vi siano sostenitori della linea scelta dalla Cisl e sostenitori della linea scelta dalla Fiom (di quelli schierati sempre e comunque con Sergio Marchionne magari parliamo un’altra volta). Il problema è che da sei mesi a questa parte non sia dato di conoscere la posizione del segretario del Partito democratico, sempre attentissimo a non sbilanciarsi in nessun senso, salvo buttare ogni tanto la palla in tribuna prendendosela con l’assenza del governo. Una critica, questa contro il governo assente, che risultebbe più efficace se con l’occasione dicesse anche cosa dovrebbe fare un governo presente. Mediare, tentare di avvicinare le parti, cercare un compromesso, si capisce. Ma pure per trovare un compromesso è necessario avere un’idea di cosa sia auspicabile. Insomma, la colpa che si rimprovera al “governo assente” è aver lasciato i poveri lavoratori da soli nelle grinfie di Marchionne, o il povero Marchionne da solo nelle grinfie della Cgil? Certo, si capisce che così è un modo semplificato di mettere le cose (che sono sempre più complesse, ci mancherebbe). Nel frattempo, però, in Italia si sta discutendo apertamente del possibile venir meno del principio stesso di un contratto nazionale. E’ un tema aperto, su tutti i giornali, salvo nelle pagine in cui si intervista Bersani, come sull’Unità di domenica scorsa, dove il segretario del Pd ha trovato il modo di parlare di tutto, meno che di quel che era appena accaduto a Mirafiori. Per un segretario che al primo punto di ogni suo discorso mette sempre l’esigenza di tornare alla “centralità del lavoro” è obbiettivamente singolare.
La verità è che il Partito democratico di Bersani, più che all’Unione monetaria europea, rischia di assomigliare sempre di più alla trasmissione di Fabio Fazio e Roberto Saviano: una lunga serie di elenchi disparati di buoni principi e anche migliori intenzioni, quasi sempre universalmente condivisibili. Ma non è questo che conta. Quello che conta è l’assenza di un discorso che tutte queste cose le tenga insieme, che dia loro un ordine, e a tutti quanti il senso di una direzione di marcia. L’impressione, almeno l’impressione, di qualcosa che ha un senso, un punto di partenza e un obiettivo da raggiungere. Qualcosa che si muove, insomma. E invece, a pensarci bene, il problema fondamentale del Pd sembra essere proprio questo: che non si muove. Ogni tanto, come per smentire quest’impressione, si dimena, si dibatte, si agita. Ma non si muove.
Naturalmente, anche sulle questioni che riguardano la Fiat e i sindacati, non mancano le giustificazioni. La più nobile, e probabilmente non infondata, dice che in fondo Bersani si preoccupa anzitutto di non inasprire la divisione tra i sindacati confederali, di non rendere le cose più difficili. E insomma, con le sue ambiguità e le sue reticenze, Bersani non si preoccuperebbe soltanto di quell’area popolare che va da Franco Marini a Beppe Fioroni e a Raffaele Boanni è legatissima, ma innanzi tutto di non mettere ulteriormente a repentaglio l’unità sindacale. Preoccupazione sacrosanta, per un leader dell’opposizione. Il problema è che Bonanni, da parte sua, non sembra preoccuparsi molto dell’unità del Pd.

Del resto, dell’unità del Pd, l’unico che sembra preoccuparsene davvero è proprio Bersani, e probabilmente questo è il suo limite principale, che lo espone a tutti i ricatti e a tutte le pressioni, interne ed esterne. E così rischia di scivolare su posizioni che non gli appartengono, incupendosi e cominciando a guardare in cagnesco qualunque cosa si muova attorno a lui. Certo, prima di arrivare alle accuse di sabotaggio contro i dirigenti che si permettano di esprimere un dissenso, alle tirate sulle quinte colonne e i capi-bastone responsabili di tutte le sconfitte e di tutte le nefandezze, ce ne vuole. Anzi, fosse anche solo per ragioni caratteriali, è probabile che a questo punto non si arriverà mai. Ma quando all’intervista in cui Nicola Latorre propone di sfidare Vendola a entrare nel Pd si fa rispondere con un comunicato in cui si dice che si tratta di opinioni personali del vicecapogruppo al Senato, neanche avesse rilasciato un’intervista sull’Urss e le prospettive di guerra mondiale, si capisce che il problema è serio. E non dipende certo da problemi di comunicazione, dall’età dei dirigenti o da un’altra qualsiasi delle mille questioni simboliche, estetiche e letterarie che animano quotidianamente il dibattito interno al Pd.
Forse la verità è che il Partito democratico, proprio come l’Unione monetaria, è figlio di un’altra stagione, dominata da altre convinzioni e da altre esigenze. E adesso davvero deve scegliere se rifondarsi su nuove basi, fuori dalla cosiddetta ortodossia neoliberale, oppure rassegnarsi e lasciarsi consumare un pezzo alla volta, esposto a tutte le speculazioni. C’è chi dice che l’equivalente del default della Grecia, per il Pd, siano state le primarie milanesi, e che una sconfitta alle primarie di Bologna, a gennaio, sarebbe l’equivalente del fallimento di Portogallo, Spagna e un’altra mezza dozzina di stati. Ma non è in fondo la logica stessa delle primarie, quella di sottrarre alle “segreterie di partito” la scelta dei candidati? E come si può al tempo stesso sottrarre quella scelta al vertice del partito e poi attribuirgliene la responsabilità? Come sia possibile non è chiaro. Fatto sta che adesso tocca a Bersani prendersi tutte le responsabilità, quasi che il partito l’avesse fatto lui a questo modo, quasi che fosse stato lui a predicare il valore assoluto delle primarie e l’intoccabilità del bipolarismo, che sono poi esattamente i due bracci della tenaglia che sta stritolando il Partito democratico: non ci fossero premi di maggioranza o altri meccanismi maggioritari consimili, e ogni partito potesse presentarsi semplicemente con il proprio simbolo alle elezioni, non ci sarebbe bisogno d’impiccarsi a nessuna alleanza preventiva, e tanto meno alle primarie, giacché a quel punto sarebbero gli elettori a decidere, con il voto al partito, di fatto, anche il candidato premier. E così, proprio Bersani, lui che in fondo all’idea di un Pd cosiffatto era arrivato per ultimo, e non senza farsi pregare, adesso se li ritrova tutti intorno, a fissarlo, come se lo si fosse detto sin dall’inizio che l’ultimo arrivato pagava per tutti. Ma anche questa, in fondo, è un’antica legge della sinistra italiana: disgraziati gli ultimi, perché saranno i primi. (il Foglio, 7 dicembre 2010)

3 commenti leave one →
  1. vity permalink
    07/12/2010 12:04

    Caro Francesco,
    spero solo che Bersani faccia tesoro di questo tuo articolo che è fantastico.

  2. Lucandrea permalink
    07/12/2010 19:33

    Molto vero, molto interessante ma sul tema delle alleanze, oggettivamente, faccio fatica. Capisco l’intento di dire, repubblica parlamentare, i governi si formano in parlamento. Giusto, sacrosanto. Ma poi? Ci alleiamo con l’Udc e Fli? O i nostri interlocutori naturali sono altrove? E poi come mettere un freno al vizio – questo sì italico – del trasformismo e dei ribaltoni? Non è forse uno schema che veda un rafforzamento dell’esecutivo al di là di ogni maggioranza parlamentare transitoria?

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